Filippo Timi: “Io, bugia che dice verità. In scena come sul Titanic. La balbuzie? Mi ha dato coraggio”

Milano – Il bello di Filippo Timi è che hai sempre un po’ voglia di stare dalla sua parte. Può sbagliare spettacolo o fare duecento repliche, essere ovunque o sparire nel nulla: il risultato è che comunque gli vuoi bene. Forse perché ogni volta sembra piazzarci un pezzo di cuore lì in mezzo. E non è poco. Specie per un cinquantenne inquietone che si divide fra cinema, tv, teatro. Nello specifico il Franco Parenti. Dove domenica debutta con ’Non sarò mai Elvis Presley’, 13 canzoni originali (e altrettanti monologhi) che sembrano autoscatti intimi. Matti. Spregiudicati. Catalogo canterino di sé stessi. In scena fino al 25.
Timi, l’ultima volta raccontava di aver voglia di Sanremo.
“E chi è che non ha voglia di ’volare’? Per me poi il festival è come cantare in paradiso. Come salvare mamma dalla morte”.
Esagerato.
“È qualcosa che non si può capire. Due anni fa ci sono stato quattro secondi per accompagnare il meraviglioso Diodato. E mio padre, che mai si era sbilanciato prima sul mio lavoro, mi ha detto “Eri bellissimo”. Con una tale fierezza! Perché Sanremo è un altare, è sposarti in mondovisione”.
Quindi si prepara per il prossimo febbraio?
“No no, anzi non diciamolo che porta male. Magari fra qualche anno. Intanto “il desiderio è stato l’esca”, come diceva David Lynch. O meglio: la carota davanti all’asino. Mi ha trainato a scrivere canzoni, facendomi trovare il coraggio di mettermi su questa cosa che desideravo. Mi sento molto asino”.
Da qui il sottotitolo ’Si è tutti bestie davanti al capolavoro’?
“Sì, ho zoccoli al posto delle mani e affronto i sentimenti. Il rischio è enorme”.
Quale rischio?
“Di smerdarmi. Per questo in locandina ci sono io che faccio la cacca. Perché finisce così quando decidi di parlare di te. Come al karaoke: parti bene ma dopo un paio di minuti ti senti Beyoncé, tutta meravigliosa, coi capelli per aria davanti al ventilatore. Quello è il momento in cui stai ca..ndo fuori”.
Eppure è abituato a mettere in scena sé stesso.
“Anche tu lo sei. Io lo faccio sul palco. Ma è un qualcosa che viviamo tutti, pure mia sorella alla Conad. Io poi sono una bugia che dice sempre la verità, condivido la mia vita ma magari nascosta dietro a un’immagine”.
Un esempio?
“Il racconto del moscerino, che ha poche ore per compiere tutto: mangiare, volare, fare l’amore, prima di scomparire sulla lingua appiccicosa di una rana. È quel tramonto emotivo che ti coglie quando non hai più la speranza di trovare l’amore. O percepisci l’ineluttabilità del morire. Durante i monologhi ho dato spesso un’indicazione al musicista Lorenzo Minozzi: facciamo come l’orchestra del Titanic, che suonava mentre colava a picco. Mentre ci si accorgeva che quella brezza era un iceberg. Siamo sospesi sul baratro”.
Ci si salva?
“L’avventura è liberarsi dal giudizio. E dal giudizio che abbiamo sulla morte, sull’evento naturale. Che comunque è sempre lì, qualsiasi cosa tu faccia”.
Come direbbe Troisi: mo’ me lo segno.
“Ma bisogna guardare il bicchiere mezzo pieno se no perde senso tutto”.
Di senso ne ha avuto parecchio ’La vita bestia’ che debuttava vent’anni fa.
“Mi ha dato credibilità come autore. Da allora ho cominciato a scrivere testi fra un film e l’altro. Ma già i dieci anni precedenti con Giorgio Barberio Corsetti erano stati un apprendistato fondamentale”.
Un consiglio che si darebbe guardandosi indietro?
““Preoccupati di meno”. All’epoca poi ero ossessionato dalla balbuzie, ci stavo male, piangevo. Però mi rendo conto che quell’ossessione mi ha permesso di non pensare ad altri problemi grandi come squali, come il fatto che Giorgio mi chiamò a fare il protagonista senza che avessi alcuna accademia alle spalle. La balbuzie mi ha spinto ad avere un coraggio spregiudicato”.
Cosa non rifarebbe?
“Cercherei di non essere superficiale come sono stato in alcuni momenti. Ma quando nasci e devi badare da solo a te stesso, tendi a far emergere un egoismo un po’ duro, a non fidarti. Che poi è un atteggiamento che crea l’immediato giudizio. Per anni ho sentito pochissimo i miei genitori. E di questo mi spiace, mi sembra qualcosa di non vissuto. Anche se forse alla fine alcune mie stronzaggini inconscie sono andate a pareggiare alcune loro conscie… Posso raccontare una cosa che dico anche nello spettacolo?”.
Certo.
“Ogni imperatore romano che vinceva andava in trionfo, su una biga d’oro, circondato dalla sua famiglia, con il più bello degli schiavi che gli reggeva l’alloro sul capo mentre all’orecchio continuava a ripetergli: “ricordati che sei un uomo””.
Momento più bello?
“Quando sono tornato a teatro dopo il Covid. Faccio un lavoro che non può prescindere dalle persone. Goethe per sintetizzare l’amore sottolineava l’importanza del dialogo. Per questo al termine dell’Amleto dico agli spettatori che forse non se ne sono accorti ma abbiamo fatto l’amore”.
Qual è la quattordicesima storia che ha lasciato fuori?
“Guarda, ne ho già scritte altre venti. E lo stesso spettacolo è un gioco in cui inverto i brani o magari ne inserisco uno nuovo a seconda della serata. Anche i monologhi sto cercando di non impararli a memoria ma di condividerne lo slancio, quasi improvvisando. Proteggo insomma questo spirito così vivo”.
Il Giorno